La ripresa artistica nel Cinquecento
La visita apostolica di Monsignor Peruzzi alla città di Chieri del 1584

L’Arco di Piazza visto da Piazza Umberto I

1. L’Arco di piazza nel Cinquecento

Da MIGNOZZETTI A., Chieri. I monumenti, gli artisti, Chieri, 2016, pp. 233-260

1.1. Gli archi di trionfo in Piemonte

Nel panorama della vita pubblica piemontese la costruzione, nel 1586, dell’Arco di Piazza di Chieri non fu un episodio isolato ma si inquadrava in un costume affermatosi su vasta scala nel Cinquecento. In quel periodo, infatti, la riscoperta del mondo classico aveva suscitato un rinnovato interesse per gli archi trionfali dell’antichità, come quello di Tito a Roma, o quelli di Pola, Benevento ed Ancona e, nell’Italia del Nord-Ovest, quelli di Susa e di Aosta. Allo stesso tempo, si iniziò ad imitarli in determinate circostanze. Nel 1537 l’architetto Sebastiano Serlio scriveva: “Ancora che a nostri tempi non si faccian più archi trionfali di marmo, o d’altre pietre, nondimeno, quando alcun personaggio fa l’entrata in una città, o per passaggio o per tor il possesso di quella, se gli fanno ne’ più bei luoghi d’essa città alcuni archi trionfali di diverse maniere ornati di pittura…”. Di fatto, Francesca Filippi fa notare che nel giro di poco più d’un secolo, solo nel   Piemonte centro-meridionale furono innalzati più di trenta archi di trionfo tra Mondovì, Cuneo, Fossano, Savigliano e Cherasco. Più vicino a noi, oltre a quello di Chieri, ne sorse uno anche a Moncalieri.

Nella seconda metà del Cinquecento furono in particolare due le occasioni che spinsero i municipi ad erigere archi trionfali in onore dei principi del momento. La prima, nel settembre del 1560, fu la visita di Emanuele Filiberto e della duchessa Margherita di Valois ai territori piemontesi appena riacquistati con la pace di Cateau-Cambrésis. Da Savona i duchi si diressero verso Ceva e Cuneo da dove, evitando Pinerolo, Chieri e Torino che, secondo le clausole del trattato di pace, erano ancora occupate da truppe francesi, puntarono verso Crescentino e Vercelli: in ognuna di queste località vennero eretti uno o più archi trionfali.  La seconda occasione fu il viaggio, iniziato da Nizza il 18 giugno 1585, di Carlo Emanuele I e Caterina d’Austria dopo le nozze celebrate a Saragozza l’11 marzo. L’itinerario fu sostanzialmente il medesimo fino a Moncalieri, da dove i due sposi raggiunsero Torino navigando sul Po fino al castello del Valentino: dovunque si ripeté il fenomeno dell’erezione di archi trionfali.

Ma tutte le visite dei Duchi nelle città di provincia venivano accolte con grandi festeggiamenti e spesso davano luogo all’erezione di archi. Che talvolta consistevano in strutture effimere, fatte di legno e tela, ricoperte di decorazioni vegetali, di dipinti, di bassorilievi e statue di stucco, di scritte che celebravano le gesta del Principe: strutture destinate a scomparire subito dopo la sua partenza.  Ma altre volte si è trattato di costruzioni in muratura. In questo caso esse sono giunte fino a noi ed esistono ancora, sia pure con qualche modifica: è il caso degli archi trionfali di Savigliano, Cherasco, Moncalieri e Chieri.

1.2. L’arco di Chieri nel 1580

Come abbiamo appena detto, nel 1560 Chieri, ancora occupata dai francesi, rimase tagliata fuori dall’itinerario percorso da Emanuele Filiberto e da Margherita di Valois per recarsi a Torino, e nel 1585 lo fu da quello di Carlo Emanuele I e Caterina d’Austria, perché a Moncalieri la coppia ducale si imbarcò e raggiunse Torino via fiume. Ma non mancarono altre occasioni per erigere archi di trionfo. Una di esse fu la visita solenne del duca Emanuele Filiberto che era stata programmata per l’autunno del 1580.

I rapporti di Chieri con il Duca non erano stati sempre dei migliori, fino al punto che qualche chierese rimpiangeva l’epoca in cui la città era occupata dai francesi. Nel nuovo assetto dello Stato, infatti, Chieri aveva perso ogni giurisdizione sul territorio circostante; il privilegio della città di gestirsi autonomamente le cause civili e penali era andato in fumo; la riforma fiscale aveva danneggiato il ceto mercantile ed imprenditoriale; le resistenze alle nuove misure fiscali avevano portato perfino allo scioglimento della Società di San Giorgio; la politica religiosa di Emanuele Filiberto aveva costretto all’espatrio i simpatizzanti per il Calvinismo e per la Riforma in genere.   Poi, però, le cose erano cambiate. Emanuele Filiberto, sopprimendo pedaggi e inaugurando un rigido protezionismo, aveva ridato ossigeno alle produzioni locali, il fustagno chierese era tornato concorrenziale, Chieri ridiventò il principale centro cotoniero del ducato e il suo commercio riconquistò le piazze europee come in passato: tutte cose per le quali i chieresi furono riconoscenti al Duca il quale, da parte sua, non lesinò gesti di simpatia nei loro riguardi.

Fra il 1562 e il 1575 Emanuele Filiberto aveva visitato più volte la città. Nel 1580, in vista di una sua ulteriore visita, i chieresi lo vollero festeggiare costruendo un arco trionfale in suo onore. Racconta Antonio Bosio che “Si diede l’impresa al capomastro Bernardino Rostagno di costrurre un Arco quasi a metà della via Maestra sulla piazza d’Erbe in faccia alla casa di Matteo Montefamerio e di Valfredo Costa: esso venne compiuto in tre mesi, giugno, luglio e agosto, colla spesa di duemila scudi e mezzo d’oro a fiorini 9 e soldi 7 cadauno, il che rileva a L. 19.356”. La stessa cosa viene asserita da Ottavio Gayotti, dal Tessiore e dal Valimberti, gli ultimi due evidentemente sulla scia dei primi. Il duca Emanuele Filiberto, però, non poté vedere l’arco eretto per lui: la morte lo colse imprevedibilmente il 30 agosto di quello stesso anno.

Nei documenti di archivio non c’è traccia della costruzione di questo arco. Tuttavia, la descrizione che ne fa Antonio Bosio è così dettagliata che non è possibile metterla in dubbio. Semmai c’è da capire, non avendole egli citate, quali siano state le fonti alle quali potrebbe aver attinto, e come mai sui libri del Comune non se ne parli. Forse perché non fu pagata dall’Amministrazione pubblica ma da un gruppo di famiglie nobili e borghesi. Comunque, dovette trattarsi di una struttura effimera, costruita in legno ed altri materiali deperibili, presto scomparsi. Probabilmente, però, tale struttura era stata innalzata su un più durevole basamento in muratura.

1.3. L’arco nel 1586

Il tre aprile del 1586 in tutto il Ducato fu salutata con manifestazioni di giubilo la nascita di Filippo Emanuele, figlio primogenito di Carlo Emanuele I e Caterina d’Austria. A Chieri si decise di festeggiare l’evento innalzando un nuovo arco di trionfo sullo stesso luogo in cui sei anni prima era stato eretto il primo[1]. Questa volta, però, si costruì un imponente struttura in muratura: quella tuttora esistente.

Si tratta di un manufatto di gusto e linguaggio rinascimentale, elemento moderno e di sapore trionfale in un contesto ancora caratterizzato dall’austera architettura medioevale. Un arco ad un unico fornice fiancheggiato da colonne corinzie a tutto tondo e a fusto liscio (quattro sul fronte ovest e due su quello est) poggianti su alti piedistalli. Tra le colonne della faccia ovest sono ricavate due nicchie nelle quali erano ospitare le statue di Carlo Emanuele e Caterina d’Austria. Nella trabeazione e nel piano attico, le coppie di colonne sono sostituite da coppie di lesene molto aggettanti che creano un senso di accentuato movimento. Originariamente sulla trabeazione, in corrispondenza delle sei colonne, erano collocate altrettante statue che, considerata la rapidità con la quale si deteriorarono, dovevano essere fatte di stucco. L’attico, recante una scritta su ognuna delle due facce, è sormontato da un’agile edicola, culminante con un timpano e fiancheggiata da obelischi triangolari, che conferisce grande slancio all’insieme. La scritta che si legge al centro della trabeazione dalla parte della piazza delle Erbe recita:

SABAUDOS PRINCIPES RELIGIONIS UBERTATISQUE CULTORES
KAROL EMANUELEM ET CATHARINAM HISPAN REGIS F.
CONIUGES OPTIMOS
POSTQUAM MASCULA PROLE SUSCEPTA
PUBLICAM SECURITATEM FELICITER AUXERANT
CHERIENSIS CIVITAS LAETABUNDA EXCEPIT
HOCQUE  AETERNUM GRATULATIONIS MONUMENTUM
POSUIT ANNO M.D.LXXXVI[2].

La città di Chieri ha lietamente accolto i principi di Savoia e ottimi sposi Carlo Emanuele e Caterina figlia del Re di Spagna, cultori della religione e della prosperità, e nell’anno 1586 ha innalzato questo eterno segno di congratulazione, dopo che con la nascita di un figlio maschio hanno felicemente accresciuto la sicurezza dei sudditi.

1.4. Ristrutturazione o costruzione ex novo?

Considerato che le testimonianze storiche parlano di due costruzioni dell’arco di Chieri avvenute a distanza di soli sei anni l’una dall’altra, è logico domandarsi se la seconda, quella del 1586 il cui risultato sopravvive tuttora, sia stata una costruzione ex novo o, come sostiene Antonio Bosio, un “perfezionamento”, cioè una ristrutturazione o un completamento di qualcosa che era rimasto di quello precedente.

La seconda ipotesi sembra la più probabile perché il Bosio si dimostra molto informato sulla vicenda. È lui, infatti, che ci ha tramandato anche i testi delle epigrafi che si sono succedute sulla sommità dell’arco. Probabilmente, pur non nominandole, ebbe modo di consultare fonti poi andate perdute.  In secondo luogo, a suggerire che l’arco del 1586 sia stato un completamento di qualcosa di già esistente sembra essere il tenore degli ordinati del Consiglio comunale del 4 e del 7 maggio 1586. Essi attestano la volontà del Comune di portare a termine l’“heddificio del archo già principiato”: non, quindi, una costruzione ex novo ma il completamento di qualcosa che già esisteva. A tale scopo erano stati già chiesti i preventivi a capomastri ed artigiani. Ora bisognava esaminare “… li partiti della fattura dell’arco qual si fa nella piazza del borgo et delliberar la fattura d’esso conforme alli capitoli et ressolutioni pubblicati in piazza”. Alla fine fu scelto quello di tal Giacomo Colombero [3].

Purtroppo non è chiaro in che cosa sia consistito quel “perfezionamento” al quale allude Antonio Bosio e il significato dell’espressione “archo già principiato” dell’Ordinato consiliare. Forse, ma è solo un’ipotesi, l’arco del 1580 era posticcio solo nella parte superiore, la più ricca di ornamenti e decorazioni plastiche, che poggiava su una più stabile base in muratura. Questa potrebbe essere “sopravvissuta” alla rapida scomparsa dell’altra, e su di essa potrebbe essere stato impostato l’arco del 1586[4].

1.5. Il problema dell’autore  

Ma questo monumento è al centro di un altro dibattito, questa volta riguardante l’identità dell’architetto che ne ha fornito il progetto.

Per molto tempo, e fino a non molti anni addietro, è stato attribuito all’architetto milanese, ma attivo anche a Torino, Pellegrino Tibaldi. Lo ha fatto Bartolomeo Valimberti nel suo libro Spunti storico-religiosi…. Lo ha fatto Augusto Cavallari Murat: nell’ Antologia monumentale di Chieri, trattando del rinnovamento architettonico introdotto in Chieri dai grandi manieristi, fra questi nomina anche il Tibaldi come autore dell’arco. E anche nella didascalia dell’illustrazione di pagina 113 scrive senza mezzi termini: “Pellegrino Tibaldi. L’arco trionfale di Chieri (1586) rilevato da M. Quarini”.  Né lui, però, né il Valimberti citano le fonti dalle quali hanno attinto la notizia.

Probabilmente è sulla loro scia che altri in seguito anno sostenuto la stessa tesi. Guido Vanetti, ad esempio, scrive che l’arco, quale è giunto fino a noi, fu “disegnato da Pellegrino Tibaldi (1527-1596) poco prima che il pittore e architetto si recasse in Spagna per restarvi sin quasi alla morte. Per comprenderne le caratteristiche e giustificare stilisticamente questo interessante esempio di un Manierismo che, pur guardando al passato, già preannuncia il Barocco, occorre confrontarlo con la facciata della Chiesa di San Fedele a Milano (1569), anch’essa del Tibaldi, che l’Arco di Chieri ricorda per la ricerca del verticalismo, evidenziato nell’impianto a due piani (ripreso poi dall’arte barocca), accentuato dalla presenza di paraste e colonne e completato dal frontone. Il superamento degli schemi proposti nel S. Fedele è evidente, invece, nella struttura piramidale del monumento chierese, ottenuta riducendo le dimensioni del secondo ordine e del frontone … Il momento di passaggio e nello stesso tempo il collegamento tra il San Fedele di Milano e l’Arco di Chieri è indubbiamente la Chiesa dei SS. Martiri, in via Garibaldi a Torino (1577), nella quale compare già la riduzione del secondo ordine e la sovrapposizione di riquadri in monocromo alle nicchie che avvolgono statue di ispirazione classicheggiante”.

Più recentemente Gianfranco Gritella ondeggia fra l’attribuzione al Tibaldi e quella ad un architetto fortemente dipendente da lui: “ La progettazione dell’arco trionfale di Chieri – scrive a pag. 39 del suo volume sul restauro dell’arco di Chieri –  si collocò negli ultimi anni della densa attività architettonica tibaldiana, concentrata fra il 1563 e il 1587, quando l’artista lasciò Milano e la sua carica di architetto della fabbrica ambrosiana per trasferirsi a Madrid… Al di là delle conferme documentarie, peraltro ancora da comprovare con precisione, l’impianto compositivo della facciata dell’arco chierese rivela un’espressività d’insieme e una duttilità nel trattamento e nell’accostamento delle forme strutturali con quelle decorative, proprie dell’età ultima del soggiorno italiano dell’architetto… Al di là del comprendere con esattezza quale sia stato effettivamente il contributo sul piano progettuale e sul cantiere fornito dal Tibaldi, appare evidente… che a questi non fu affidata in esclusiva la soprintendenza ai lavori”.

Ma a pagina 47, parlando dei festeggiamenti organizzati a Chieri in occasione della visita di Carlo Emanuele I, Gritella, lascia da parte ogni incertezza e prudenza e si riferisce al Tibaldi come al sicuro autore dell’arco:  “ L’intervento del Tibaldi (alla visita ducale a Chieri, ndr) apre tracce d’indagine ancora inesplorate… Stando alle informazioni che possediamo, il progetto dell’arco preparato dal Tibaldi si calava in un ambizioso programma di figurazione urbana… L’arco tibaldiano con la sua presenza incombente… si apriva sulla piazza del potere civico… “.

1.6. L’architetto Giovanni Battista Ripa

Ma “L’improbabile attribuzione (del progetto al Tibaldi, n,d,r,) è smentita dai documenti che, incredibilmente, pare siano alquanto trascurati”. Lo sostiene, e lo dimostra, Vincenzo Tedesco in un volumetto del 2002 scritto in collaborazione con Michelangelo Navire e pubblicato dall’Associazione Carreum Potentia. E a sostegno della sua affermazione cita gli Ordinati del Consiglio comunale.

Il 7 maggio 1586 i Consiglieri devono rispondere alle proteste di Antonio Valfredo, la cui abitazione è adiacente all’arco in costruzione, il quale si lamenta “per li danni… che gli vien causato al hedificio di due sue botteghe et crotta qual ha nel presente luogo di Chieri nel bordo per la fabrica del heddificio del archo già principiato…”. Al contestatore il Consiglio risponde di non poter prendere in considerazione le sue rimostranze perché “…tal edifficio del Archo si è fabbricato et fondato de ordine delli Ingigneri mandati da sua Altezza”. Il Comune, cioè, dice di non poter intervenire perché la costruzione dell’arco era gestita da altri, cioè dagli Ingegneri mandati dal Duca. Notare che non si parla di un ingegnere, ma di ingegneri, al plurale, come se l’opera sia da attribuirsi ad una équipe di professionisti. Ma evidentemente quella frase va riferita alla realizzazione dell’opera. Poche righe più avanti, infatti, lo stesso Ordinato ne attribuisce il disegno ad un solo autore, del quale fa anche il nome: il 7 maggio “…è comparso maestro Hieronimo Sarone milanese abitante in Turino qual propone partito di far li stuchi necessari per l’archo secondo il dissegno fatto e secondo li ornamenti che si daranno da messer Battista Riva ingignero…”. Il progetto, quindi, è di un ingegnere di nome Battista Riva. Un nome sconosciuto. Almeno a Chieri. Ma certamente da identificarsi con Giovanni Battista Ripa, architetto milanese, in quel periodo residente e operante a Torino.

Il cui ruolo nella costruzione dell’arco di Chieri trova spiegazione in alcune vicende di quegli anni. Nel 1577, infatti, il duca Emanuele Filiberto, come segno di una riconciliazione fra il Vaticano e lo Stato, aveva deciso di costruire una chiesa dedicata ai Santi Martiri protettori di Torino Solutore, Avventore e Ottavio e di affidarne la cura alla Compagnia di Gesù, nata pochi decenni prima col compito di difendere la fede. I Gesuiti, forse dietro sollecitazione del Cardinale Carlo Borromeo, affidarono l’incarico di redigere il progetto a Pellegrino Tibaldi. Il quale sembra non si sia nemmeno spostato da Milano, ma abbia inviato a Torino il progetto, fortemente ispirato alla chiesa milanese di San Fedele, che fu realizzato dall’architetto Giovanni Battista Ripa, milanese ma residente ed operante a Torino. Probabilmente, partendo dal fatto che l’arco di Chieri fu eseguito dallo stesso architetto, si è pensato che anche questo fosse stato progettato dal Tibaldi, tanto più che vi si notano molte somiglianze con la struttura delle facciate delle chiese di San Fedele di Milano e dei Santi Martiri di Torino. Tale ipotesi divenne per qualcuno una certezza, e come tale è stata poi tramandata ed accettata passivamente. Invece, dai documenti di archivio sembra che a lui il Comune di Chieri abbia affidato l’incarico della progettazione dell’arco.

Ma non si può escludere un’altra eventualità

Si ha tuttavia l’impressione che tutto ciò che è stato detto non elimini con assoluta certezza la possibilità di un qualche ruolo di Pellegrino Tibaldi nella costruzione dell’arco. Non si può escludere che, come nel caso della chiesa dei Santi Martiri di Torino, anche nel costruire l’arco di Chieri Giovanni Battista Ripa abbia realizzato un progetto non suo ma di Pellegrino Tibaldi. Tanto più che il significato della frase dell’Ordinato del 7 maggio 1586: “…è comparso maestro Hieronimo Sarone milanese abitante in Turino qual propone partito di far li stuchi necessari per l’archo secondo il dissegno fatto… da messer Battista Riva ingignero…”, frase che costituisce la prova regina a favore del Riva, non è poi così scontato: quella del maestro Girolamo Sarone, che cioè il Riva fosse l’autore del disegno, potrebbe essere stata una sua convinzione dovuta al fatto che era con lui che aveva a che fare, magari ignorando anche l’esistenza del Tibaldi.

Ma siamo nel campo delle ipotesi, anche se molto verosimili. In assenza di altre prove, il nome del Tibaldi lo si può evocare per riconoscere che la struttura dell’Arco di Piazza richiama quella di varie sue opere. Ma ciò si può spiegare con la dipendenza da lui del milanese Giovanni Battista Ripa, suo abituale collaboratore, al quale in realtà si dovrebbe assegnare il progetto.

Note

[1] Ottavio Gayotti: “In quest’anno viene perfezionato l’Arco di Trionfo nella Piazza d’Erbe, e questo per il giubilo, e consolante notizia della nascita del duca Vittorio Amedeo I, quale si solenizò con fuochi di gioia, illuminazioni, furon poste iscrizioni e stemma ducale e della Cittò, ornato di statue ed iscrizioni e dipinti allusiivi in occasione del loro ricevimento in questa città”. (p. 241).

[2] Questa epigrafe probabilmente è stata aggiunta all’arco l’anno successivo, dopo la visita dei Duchi, avvenuta nel 1577, altrimenti conterrebbe un errore cronologico, come ritenuto sia dal Bosio sia dal Valimberti.

[3] ascc, Ordinati del 1586, art. 58, par. 1, vol. 17, f. 5

[4] ascc, Ordinati del 1586, art. 58, par. 1, vol. 17, f. 6 v-8 v.  Recentemente Gianfranco Gritella (2003) ha sostenuto una tesi più radicale: che “il cantiere per la costruzione del primo edificio non fosse mai stato avviato, o forse appena impostato e poi interrotto a causa dell’improvvisa morte di Emanuele Filiberto… L’occasione di riavviare i lavori , riprendendo le fila interrotte nel 1580, si presenta con la nascita di Filippo Emanuele, primogenito di Carlo Emanuele I e Caterina d’Austria, e quindi della successiva, programmata visita a Chieri dei due sovrani per festeggiare l’evento, visita poi replicata il 23 agosto 1587, poco dopo la nascita del secondogenito, Vittorio Amedeo…”.  Gritella basa la sua tesi sul fatto che nel 1587 la costruzione dell’arco costò 2000 scudi, tanto quanto era stato preventivato per il primo. Ma, anche non considerando il diverso valore attribuito allo scudo nelle due circostanze (9 fiorini e sette soldi nel 1580, 11 fiorini nel 1586), Gritella non tiene conto di quanto afferma il Bosio, che cioè nel 1580 l’arco era stato costruito in tre mesi, giugno, luglio e agosto, lasciando intendere che era stato portato a termine.

2. L’arco fino ad oggi

Da MIGNOZZETTI A., Chieri. I monumenti, gli artisti, Chieri, 2016, pp. 233-260

2.1. I primi restauri

Nella storia di Chieri l’Arco di Piazza è tornato più volte alla ribalta per ricorrenti interventi di restauro. La prima volta nel 1593, quando una delle statue collocate sulla trabeazione cadde uccidendo la moglie di tale Baldassarre Ghignone. Il Comune, per precauzione, rimosse anche le altre[1], ad eccezione di quelle del Duca e della Duchessa, che erano collocate nelle nicchie.

Nel 1620 furono necessari non meglio precisati interventi di restauro, che arrecarono qualche danno all’abitazione confinante di Giacomo Montefamerio, il quale a tal motivo intentò una causa, vincendola, contro l’Amministrazione Comunale[2]. Altri abbellimenti, probabilmente sovrastrutture onorifiche provvisorie, risultano essere stati eseguiti nel 1629, in occasione di una visita di Madama Reale Cristina di Francia.

2.2. Il restauro di Bernardo Vittone

Durante la seduta del 21 aprile del 1761 il sindaco Angelo Baudo informava il Consiglio “… esser questa mane rovinata una parte dell’Arco di Piazza verso la chiesa dei RR. Padri di San Filippo, qual rovina ha causato la morte d’un uomo rimasto sul colpo e diverse altre persone ferite da materiali provenienti dalla rovina suddetta onde esser necessario che prontamente venghi l’Arco riparato in quella parte che come sovra è rovinato, come anche in tutte le altre sue parti  visitato da persona perita affinché dalla medesima si riconosca se anche alle suddette parti resti pur anco o no il medesimo Arco bisognoso di riparazione affinché le medesime si facciano seguire quanto prima ad effetto d’evitare ogni ulterior rovina”[3].  L’uomo rimasto ucciso dal crollo era di Superga, e si chiamava Francesco Bertinetto.

Il Consiglio dette immediatamente incarico al medesimo sindaco “di far venire espressamente e prontamente dalla città di Torino un qualche Ingegnere da cui venghi l’Arco predetto visitato e ne prescriva le riparazioni necessarie ed anche il sentimento di detto Ingegnere[4].

L’invito fu rivolto a Bernardo Antonio Vittone, in quel momento attivo in Chieri per la realizzazione della cappella della Madonna delle Grazie nella Collegiata e la ristrutturazione della chiesa di Santa Lucia e impegnato a Riva presso Chieri per il completamento della chiesa parrocchiale. Nella seduta del 9 dicembre 1761 il Consiglio decise di chiedere al Vittone “… di formare e transmettere alla Città il compito disegno o sii figura dell’Arco Trionfale sudetto nella forma che il medesimo di presente si trova coll’aggiunta però delle Statue  sì e come gli è stato per parte della Città commesso, et avuta tal figura o sii dissegno il Consiglio si riserva di spedire gli opportuni mandati per la soddisfazione di tutto ciò e quanto le sarò al medesimo Sig. Ingegnere Vittone dovuto[5]. I suoi disegni, per i quali venne compensato con L. 140[6], sono conservati presso la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino.

Le opere murarie, eseguite dal capomastro Giulio Cesare Lagna[7], costarono circa 3000 lire[8].  Dagli Ordinati del Comune si evince che nelle nicchie furono ricollocate le statue di Carlo Emanuele I e di Caterina di Spagna[9]. Da una lettera del Vittone indirizzata ad un non meglio precisato funzionario comunale, ma anche dai suoi disegni e dalla riproduzione a stampa fattane dal Quarini pochi anni dopo[10], si deduce che nel suo progetto era prevista anche la ricollocazione sulla trabeazione di sei statue in sostituzione di quelle eliminate nel 1593. In due riquadri sovrastanti le nicchie erano rappresentate due figure femminili allegoriche. Altre figure allegoriche comparivano in altri due riquadri alle estremità dell’attico.

A conclusione di quel restauro al centro della faccia est del piano attico fu posta la seguente iscrizione:

(LATO EST)

MONUMENTUM HOC SABAUDIS PRINCIPIBUS DICATUM
TEMPORE INIURIA PENE COLLAPSUM
CHERIENSES ANNO MDCCLXI RESTITUENTES
CAROLO EMANUELI III SARDIN. REGI INVICTISSIMO
AC VICTORIO AMEDEO SABAUDIAE DUCI
OB RECREATUM NUPER EX LETHALI MORBO
CAROLUM EMANUELEM PEDEMONTII PRINCIPEM
NOVA OBSEQUII ET SPEI VOTA LAETANTI ANIMO PROFITENTU

Nel 1761 i Chieresi, restituendo a Carlo Emanuele III invittissimo Re di Sardegna e a Vittorio Amedeo Duca di Savoia questo monumento dedicato ai principi di Savoia, quasi distrutto dall’ingiuria del tempo, esprimono con animo lieto nuovi auguri per la guarigione da una grave malattia di Carlo Emanuele principe di Piemonte.

2.3. Gli interventi di Filippo Zalli…

Nel dicembre 1798, dopo l’occupazione del Piemonte da parte dell’esercito rivoluzionario francese, la Municipalità di Chieri attuò prontamente le disposizioni iconoclaste del Governo Provvisorio di Torino. Un manifesto affisso il giorno 11 stabiliva che: “1° Non si potrà da veruna persona tanto abitante in questa città che nel suo territorio ritenere… alcun titolo o distintivo. 2° Si dovrà indilatamente, e tosto pubblicato il presente, fare abbattere e cancellare ogni e qualunque siasi stemma gentilizio già inserviente di decorazione delle famiglie, tanto esistenti in pubblico che in privato…”. Coerenza e servilismo volle che i primi stemmi ad essere eliminati furono quelli reali dipinti sull’Arco di Piazza, e insieme ad essi le statue del duca Carlo Emanuele I e della moglie Caterina di Spagna[11] e quelle della trabeazione[12], e con esse le due epigrafi.

Il 31 agosto 1799, dopo che l’esercito austro-russo ebbe respinto e rimpiazzato quello francese, il  Consiglio Comunale fu lesto a ripristinare gli stemmi reali [13]. Non si sa con certezza a chi sia stato affidato tale lavoro, ma si può supporre che si sia trattato di Filippo Zalli, visto che in quel momento era l’artista più quotato e che esiste un suo preventivo (non datato) per eseguire a fresco o ad olio anche gli stessi stemmi sulla facciata del Palazzo Municipale[14]. Nel dicembre del 1798 era stato lui a dipingere l’Albero della Libertà eretto dall’architetto Giuseppe Michele Vaj[15] e sarà lui il 7 maggio 1801 a ritoccarlo[16].

Stando alla testimonianza di Antonio Bosio[17], a conclusione di quell’operazione il Comune sulla faccia est fece dipingere dal pittore Marmori la seguente epigrafe:

REGIS ET URBIS
INSIGNIA
GALLORUM INVASIONE PROSCRIPTA
PATRES
BILIONE RECTORE
RESTITUENDO CURAVERUNT
ANNO MDCCLXXXXIX[18].

Epigrafe e stemmi scomparvero di nuovo allorché, dopo la vittoria di Napoleone a Marengo (14 giugno 1800), la situazione politica si ribaltò ulteriormente, il Piemonte tornò sotto l’ala francese e nel settembre del 1802 fu addirittura annesso alla Francia.

2.4. … quelli di Pietro Fea…

Anche dopo la fine di Napoleone e l’inizio della Restaurazione i solerti amministratori non persero tempo: nel giugno del 1814 sollecitarono vari artisti a presentare il loro preventivo per la ridipintura degli stemmi reali sull’Arco di Piazza. A tale proposito vi sono due lettere del pittore Pietro Fea, professore di disegno presso il Collegio Civico, una del 30 giugno e l’altra del 2 luglio 1814, nelle quali egli, “… essendo la mia intenzione di offrire la mia servitù alla Città a cui mi pregio di appartenere pel titolo del mio impiego”, si offre di eseguirli senza proporre un prezzo ma accettando il compenso che la Città gli avrebbe offerto e dichiara al cavalier Alessandro Buschetti che se gli verrà conferito l’incarico “… io ben volentieri accetto l’opera da eseguirsi, che sarà degna dell’epoca felice in cui siamo, corrispondente alla bella Architettura dell’Arco che si può considerare uno dei migliori documenti del Piemonte, ed onorevole al Corpo componente la Città; ed in questo caso, dopo che l’opera sarà compiuta e gradita, io accetterò quanto dai prefati Signori mi sarà offerto in titolo di regalo, mentre con la città di Chieri non intendo fare alcun prezzo, ma di consacrarle la mia poca abilità per renderla quanto da me dipende Chiara ed Illustre[19]. Non sappiamo se la sua offerta sia stata accettata e se l’incarico sia stato affidato lui.

2.5. … e quelli di Felice Curtial e Francesco Ferazzino

Nel 1837, in occasione di un ulteriore restauro dell’arco[20] eseguito dall’architetto Felice Curtial[21], al pittore Francesco Ferazzino, figlio del “tolaio” e pittore Stefano Ferazzino, fu affidato il rifacimento completo della decorazione pittorica, come risulta dai documenti dell’archivio comunale: “Dichiaro io sottoscritto Marchese Vespasiano Ripa Buschetti di Meana, Consigliere Ordinario della Città di Chieri, particolarmente incaricato dalla Civica Amministrazione della direzione di tutti i lavori in corso d’aver accordato al Sig. Francesco Ferazzino l’opera di pittura ed ornati dell’arco Trionfale di Piazza mediante la somma di Lire Ottocento, da corrispondere finita la sua obbligazione, e ciò in vista che doveva eseguire come eseguì tutte le pitture a fresco, con somma mia soddisfazione, non che di quella di tutte le persone dell’arte, e per essere ciò la verità ho spedito il presente per quell’uso. In fede Chieri addì 16 Ottobre 1837[22]. Negli ovali sovrastanti le nicchie, trasformati in ottagoni, Ferazzino ridipinse le due figure allegoriche; sopra di esse due medaglioni con i ritratti duchi Carlo Emanuele e Caterina, le cui statue erano state eliminate, e nei riquadri alle estremità dell’attico i loro stemmi.

Sulla facciata che dà verso la Piazza delle Erbe fu ripristinata l’epigrafe originale. Su quella opposta fu dipinta la seguente, il cui testo si deve al prof. Carlo Boucheron:

FORNICEM
PUBLICAE GRATULATIONIS CAUSAM
A SOLO EXCITATUM
INSTAURATIS SUBSTRUCTIONIBUS
SPLENDIDIORE CULTU RESTITUIT
VICTORIUS BALBIANUS VIALIS C.
RECTOR ET PROCURATOR URBIS.
AN.M.DCCC.XXXVII
KAROLO ALBERTO REGE

L’arco, innalzato per pubblico ringraziamento, ha restaurato nella struttura e restituito (alla città) con più splendido aspetto Vittorio Balbiano conte di Viale, rettore e procuratore della città, nell’anno 1837, regnante Carlo Alberto

L’arco, ormai dotato dell’orologio, fu ridipinto circa mezzo secolo dopo da un altrimenti sconosciuto pittore di nome Andrea Marchetti. L’inserimento dell’orologio aveva comportato l’eliminazione dall’edicola degli stemmi sabaudo e comunale. Il primo fu ridipinto fra le coppie di lesene del piano attico; il secondo fu replicato in proporzioni più ridotte sopra l’orologio.

Altri restauri vennero eseguiti nel 1980 e nel 2002, quest’ultimo sotto la direzione dell’architetto Gianfranco Gritella.

2.6. La lapide ai “padri” della Patria

Il venti settembre 1911, essendo sindaco Francesco Fasano, nella parete nord dell’intradosso del fornice fu collocata una lapide-monumento “con medaglioni in bronzo raffiguranti i massimi Fattori dell’unità ed indipendenza d’Italia”. Fu disegnata dal consigliere comunale Giuseppe Mussino ed eseguita dal marmista Vincenzo Gastini. I quattro medaglioni di bronzo furono eseguiti dallo scultore torinese di origini valsesiane Casimiro Debiaggi. Il commendatore professor Agostino Bottero scrisse l’epigrafe, il cui tono retorico e la cui visione storica si devono al clima di quel momento storico:

LA STORIA
DELLA GENTE LATINA
RICORDERÀ NEI SECOLI
IL VALORE E LA LEALTÀ
DI VITTORIO EMANUELE II
LA SAPIENZA POLITICA E LE SANTE AUDACIE
DI CAMILLO BENSO DI CAVOUR
L’EROISMO E LA GENEROSITÀ
DI GIUSEPPE GARIBALDI
IL PENSIERO E L’APOSTOLATO DI GIUSEPPE MAZZINI
CLAMANDO
ALLE FUTURE GENERAZIONI
CHE PER L’OPERA DI QUEI GRANDI
L’ASPETTATA FRA LE NAZIONI
DOPO TANTI ANNI DI SERVITÙ
SI LEVÒ E DISSE:
IO SONO L’ITALIA

[1] O. GAYOTTI, vol. 1, p. 247.  Non sappiamo quante fossero le statue perché non abbiamo disegni antichi dell’arco. Quelli che abbiamo sono di Bernardo Vittone e di M. L. Quarini e rappresentano l’arco come appariva dopo l’intervento vittoniano del 1761.

[2] ASCC, art. 49, par. 10, n. 43, Atti civili del notaio Giacomo Montefamerio di Chieri conro l’Ill.ma Comunità del medesimo luogo.

[3] ASCC, Ordinati, art.58, par. 2, vol. 56, ff. 18 v-19.

[4] id

[5] ASCC, Ordinati, art. 58, par. 2, vol. 56, f. 61 v.

[6] ASCC, Ordinati, art. 58, par. 2, vol. 56, f. 69.

[7] ASCC, art. 157, vol. 18.  Vedere anche: ascc, Ordinati, Art. 58, par. 2, vol. 56, ff. 19. 20. 21v. 26v. 27v. 49. 62.69.

[8] ASCC, Ordinati, art. 58, par. 2, vol. 56, f.  20.

[9] ASCC, Ordinati, art. 58, par. 2, vol. 56, f.  49 v.

[10] In questa stampa il Quarini ha scritto: “Arco eretto dalla città di Chieri nell’anno 1686 per la nascita di Vittorio Amedeo I”, ma doveva scrivere: Filippo Emanuele; Vittorio Amedeo nacque l’anno successivo, 1587.

[11] O. GAYOTTI, vol. I, p. 339.

[12] Non sappiamo quando furono eliminate le altre sei statue, che non verranno mai più ricollocate al loro posto: infatti sono assenti in tutte le riproduzioni dell’arco dall’Ottocento in qua e lo sono anche nella realtà attuale.

[13] ASCC, Ordinati, art. 58, par. 2, vol, 70, f. 50.

[14] ASCC, cat. XIV, Miscellanea, Corrispondenza 1814-1815, 15-16.

[15] ASCC, Ordinati, art. 58, par. 2, vol. 69, f. 114 v. Risulta che il Vay abbia eretto anche l’Albero della Libertà di Pino Torinese servendosi della collaborazione dello Zalli, del sarto Franco e del “tolaio” Giuseppe Ferazzino. Per quello di Chieri si servì di nuovo dello Zalli: si può supporre che sia ricorso anche agli altri due artigiani. Vedere in proposito: checchetto stefania-mantelli paola, 1989, p. 63.     

[16] ASCC, Ordinati, art. 58, par. 2, vol. 70, f. 76 v.

[17] A. BOSIO, 1878, p. 340.

[18] “Nell’anno 1799, i responsabili della città, essendo sindaco Bigliani, fecero restaurare le insegne regie e cittadine che erano state proscritte in seguito all’invasione francese”.

[19] ASCC, Cat. XIV, Miscellanea, 15, Corrisp. 1814.

[20] Per tale restauro nell’agosto di quell’anno il Comune stanziò L. 5.700 per un primo acconto da versare ai vari artigiani e artisti coinvolti nell’opera (ASCC, Art. 157, Lettere, 31).

[21] G. GRITELLA, 2003, pp. 18-21.

[22] ASCC, verbale del Consiglio Comunale 16 ottobre 1837, allegati, p. 201.

3. Immagini dell’arco di Chieri

Si segnala la Galleria fotografica in: https://www.comune.chieri.to.it/cultura-turismo/arco-trionfale

4. Bibliografia ragionata

  • MIGNOZZETTI A., L’Arco di Piazza, in: Chieri. I monumenti, gli artisti, Chieri, 2016, pp. 233-260
  • CAVALLARI MURAT, Antologia monumentale di Chieri, Torino, 1969 Contiene un rilievo del Quarini a pag. 113 e due disegni del Vittone (1761) che riproduce il disegno di Pellegrino Tibaldi pag. 133.
  • FILIPPI F., Archi trionfali nel Piemonte meridionale, 1560-1668, in Giovanni Romano – Gelsomina Spione (a cura di), Una gloriosa sfida. Opere d’arte a Fossano, Saluzzo, Savigliano. 1550-1750, Savigliano, 2000, pp. 155-18
  • GAYOTTI O., Commentario di memorie patrie con indice d’antichi ordinati del Consiglio della Città di Chieri, vol. I, passim, ms. in Biblioteca Civica Chieri, sez. Storia Locale
  • GRITELLA G., La metafora e la magnificenza. Il restauro dell’arco di Chieri, Torino, 2003
  • TEDESCO V., L’Arco di Piazza di Chieri, in V. TEDESCO – M. NAVIRE, Il cinquecentesco Arco di Piazza nell’illustre città di Chieri, Chieri, 2002
  • VALIMBERTI B., Spunti storico-religiosi sopra la città di Chieri, vol. I, Il Duomo, Chieri, 1928, pp. 111-114. Nota n. 2
  • BOSIO A., Memorie storico-religiose e di belle arti del Duomo e delle altre chiese di Chieri, Torino, 1878

Collegamenti nella rete

 

La ripresa artistica nel Cinquecento
La visita apostolica di Monsignor Peruzzi alla città di Chieri del 1584