Il Seicento a Chieri
Dal Rinascimento al Barocco

La peste comparve a Chieri alla fine di giugno, e raggiunse la massima virulenza fra luglio e settembre del 1630, mietendo migliaia di vittime. Impotenti, i Conservatori della Sanità e il Consiglio Comunale invocarono l’aiuto del Cielo.

In segno di riconoscenza, nel 1634 eressero all’interno del Duomo una cappella in onore della Madonna delle Grazie. Nel 1757 la cappella sarebbe stata ampliata e trasformata da Bernardo Antonio Vittone.

1. La peste in Piemonte

Da https://it.wikipedia.org/wiki/Peste_del_1630

La peste del 1630 fu un’epidemia diffusasi nel periodo tra il 1629 e il 1633 che colpì, fra le altre, diverse zone dell’Italia settentrionale, raggiungendo anche il Granducato di Toscana e la Svizzera, con la massima diffusione nell’anno 1630. Il Ducato di Milano, e quindi la sua capitale, fu uno degli Stati più gravemente colpiti. L’epidemia è nota anche come peste manzoniana perché venne ampiamente descritta da Alessandro Manzoni nel romanzo I promessi sposi e nel saggio storico Storia della colonna infame.

Il 2 gennaio 1630 venne segnalato il primo caso di peste a Torino: si trattava di un calzolaio. Non è un caso che sovente le prime vittime erano coloro che lavoravano a diretto contatto con calzature o con oggetti quotidiani in contiguità con il suolo che, troppo spesso, mancava delle più elementari condizioni igieniche. Torino, come le maggiori città piemontesi, vide aumentare la diaspora dalle campagne e dai territori limitrofi, fino a vietare l’ingresso agli stranieri e chiudere le porte della città. L’epidemia si diffuse rapidamente, coinvolgendo anche altri centri della provincia come Pinerolo ed estendendosi poi ai territori del cuneese quali: AlbaSaluzzo e Savigliano. A Torino la situazione raggiunse il culmine della gravità con il sopraggiungere del caldo estivo che favorì la trasmissione del morbo.

Di fondamentale rilevanza furono la figura dell’archiatra e protomedico di Casa Savoia Giovanni Francesco Fiochetto e dell’allora neosindaco Gianfrancesco Bellezia. Il primo è il più famoso tra i vari medici che rimasero in città durante la pestilenza ed è per questo conosciuto come il medico della peste per essere intervenuto, tra il 1630 ed il 1631, instaurando una rigorosa disciplina sanitaria tra la popolazione torinese e che avrebbe fatto scuola negli anni a venire. Il secondo rimase in maniera pressoché continuativa in città, che fu invece abbandonata dalle maggiori figure istituzionali. Gli stessi Savoia si rifugiarono a Cherasco. Eletto Decurione nel 1628 e poi primo sindaco della città proprio nel funesto anno 1630, Bellezia affrontò coraggiosamente il suo mandato diventando il fulcro dell’organizzazione sanitaria attivatasi per affrontare l’emergenza. Inoltre dovette anche contenere l’isteria del popolo nei confronti di episodi di sciacallaggio.

L’epidemia, seppur gestita con coscienzioso scrupolo, fu debellata solo verso novembre del 1630, con il favore del freddo. Su una popolazione di circa 25 000 abitanti, Torino contò la perdita di ben 8 000 persone. Nell’anno seguente e in quello successivo fu registrato un numero enorme di matrimoni. Il 7 aprile dello stesso anno la Pace di Cherasco decretò la fine della guerra per la successione del Ducato di Mantova e si andò quindi ristabilendo un relativo equilibrio; dal mese di settembre i registri di Torino tornarono a riempirsi di nuove nascite. Tuttavia ci vollero quasi due secoli prima di raggiungere nuovamente il numero di abitanti precedente al 1630.

2. La peste del 1630 a Chieri

Sull’argomento è fondamentale l’articolo di TERRANOVA C., La peste a Chieri nel 1630, in O di Chieri gran regina! La Madonna e la città tra Medioevo e Novecento, Chieri, 2010, pp. 49-64 da cui traiamo i passi che seguono.

È il 28 settembre 1630, Sono passati tre mesi dalla denuncia dei primi casi di peste a Chieri. Sindaci, consiglieri, vicario ducale non hanno perso tempo e all’inizio di luglio sono già in azione dodici Conservatori della sanità: bisogna arginare la diffusione del contagio, rafforzando i controlli alle porte; ma l’esperienza del passato insegna che è meglio prepararsi al peggio, così nella seduta del 13 i consiglieri avviano la procedura per l’apertura di due lazzaretti, uno per i “sospetti e uno per gli “infetti”.

Oltre che con il ricovero nell’apposito lazzaretto, i “sospetti” erano separati dai sani mediante sequestro in casa (…). Giò Biagio Montuto, lo stesso che avrebbe istituito nel 1638 la Casa delle Orfanelle, trovandosi nella necessità di aggiornare un precedente testamento per la morte dell’erede universale designato allora, dettò il 12 luglio le sue volontà da una finestra “della sua camera di casa”, nella quale si trovava “serrato per qualche sospetto di contagione.

Delle migliaia di chieresi colpiti dalla peste, la maggior parte è rimasta anonima. Quelli di cui conosciamo il nome sono in prevalenza religiosi, laici di un certo rilievo sociale, figure minori comunque legate agli ambienti ecclesiastici o rimaste “impigliate” per un capriccio del caso nella documentazione raccolta da Gioachino Montù.

Il 20 agosto, ritenendo di far cosa saggia, Giulio Cesare Robbio, si trasferisce dalla città “alla cascina della vigna”, in regione Busdaniello “nella valle dei Ceppi”, dove già vivono le figlie, il genero, i cognati, due servi: ma il 27 di agosto si ammalano di peste il cognato Filiberto Mayna e la figlia Laura. Giulio Cesare non manca “sino all’ultimo di praticarla, visitarla, medicarla, toccar le sue piaghe”, ma Laura muore il 29 “con carbone, cotisella febbre ardente, dolori eccessivi”, dopo aver dato alla luce una bambina, “alla quale per il dubbio della contagione della madre non si trovava chi la potesse soccorrere del latte”. Consapevole che la convivenza con il cognato e l’assistenza prestata alla figlia lo hanno senz’altro esposto al rischio del contagio, Giulio Cesare prega e fa voti perché la misericordia di Dio lo risparmi. Il “buon vecchio” sarà esaudito, giacché il 12 gennaio 1653 risulta ancora vivo per essere aggregato, con i suoi figli, nel corso di una solenne cerimonia, “al corpo della nobiltà di Chieri.

3. La cappella della Madonna delle Grazie

Scrive A. MIGNOZZETTI in  https://www.100torri.it/newsite/?page_id=33034

Il 26 luglio 1630, nel pieno della peste, i Conservatori della Sanità di Chieri, riconoscendosi ormai incapaci di far fronte all’emergenza, formularono il solenne voto di erigere, all’interno della Collegiata, una cappella in onore della Madonna delle Grazie, se per sua intercessione il contagio fosse cessato. Il giorno successivo il Consiglio Comunale ratificò il voto.

Ma non essendoci nella chiesa uno spazio libero, nel mese di agosto i Consiglieri incaricati presero contatto con Aurelio Valimberti, nobile chierese, per ottenerne la cessione di metà (una delle due campate delle quali era composta) della sua cappella dedicata a San Giuliano, situata nella navata sinistra, poco oltre l’ingresso.

Ottenutala, fra il 1630 e il 1631 incaricò i fratelli Rusca, impresari luganesi, di trasformarla in cappella votiva municipale; da Pietro Botto di Savigliano fece scolpire la statua della Madonna da collocare sull’altare; ai fratelli Cerutti, nipoti di Francesco Fea, affidò la decorazione pittorica.

Nel febbraio del 1636 avvenne l’inaugurazione della cappella, che da allora in poi è stata (ed è) al centro della devozione dei chieresi.

Ha scritto A. MIGNOZZETTI, in Artisti nel Duomo di Chieri, Chieri, 2007 (ulteriori approfondimenti in “Architetti del ‘700”.

Nel 1756 il Comune di Chieri decise di ristrutturare ed ampliare la cappella votiva che nel 1631 aveva eretto nella Collegiata di Santa Maria della Scala come ringraziamento alla Madonna delle Grazie per aver allontanato la peste dalla città.

Fu quasi scontato che ne conferisse l’incarico a Bernardo Vittone, l’architetto che a Chieri aveva collaborato con Filippo Juvarra alla costruzione della chiesa di S. Andrea e in prima persona aveva progettato la cupola di S. Bernardino (1744) e  la facciata della chiesa di S. Giorgio (1752) ed era stato appena incaricato di redigere il progetto per la costruzione di un orfanotrofio femminile, e aveva anche eseguito i disegni per la parrocchiale di Pecetto (1730) e per il palazzo dei conti Grosso di Bruzolo a Riva presso Chieri.

Nel 1757 Vittone eseguì i disegni riguardanti la struttura della cappella. Il lavoro di muratura fu eseguito dal capomastro Carlo Isabella e le opere in marmo da Amedeo Rizzi, scalpellino di Viggiù con laboratorio a Torino.

L’architetto venne più volte a Chieri: il 6 luglio 1757 per un sopralluogo; il 31 agosto 1758 per il collaudo dell’altare; il 31 luglio 1759, in compagnia del pittore Sariga, per assistere alla collocazione dei due quadri laterali.

Il 22 aprile 1759 presentò i disegni del rivestimento in marmo del piccolo presbiterio, che fu eseguito entro l’agosto del 1759, in tempo per la festa della Madonna delle Grazie.

Solo sei anni dopo, il 20 luglio 1765, presentò il terzo preventivo, concernente “la costruzione dell’impellicciamento dei due laterali della cappella”, cioè del rivestimento marmoreo delle pareti dell’aula: lavoro la cui esecuzione, forse per difficoltà finanziarie, andò molto a rilento e fu terminato dopo la sua morte, avvenuta nell’ottobre del 1770. Il collaudo dell’opera fu affettuato l’11 settembre 1771 dal suo allievo chierese Mario Ludovico Quarini.

All’opera collaborarono lo scultore Ignazio Perucca al quale si deve “il gruppo d’angioletti che forma sostegno al simulacro della Vergine, come pure quelli soprastanti al cornicione, e le tre testine alate sotto la stella terminale”; il pittore Giuseppe Sariga, che eseguì a fresco i dipinti del “cupolino” e ad olio le due tele ai lati dell’altare; l’intagliatore Giuseppe Antonio Riva per lavori vari, fra cui la porticina in legno del tabernacolo.

Con le linee rette dell’aula interamente rivestita di preziosi marmi policromi, che lateralmente si apre sulle cappelle adiacenti, creano un gradevole contrasto quelle curve del presbiterio che culmina in una semicupola affrescata con angeli da Giuseppe Sariga e in una luminosa lanterna. Formati di marmi policromi sono anche l’altare ad urna e la maestosa ancona marmorea che rispettivamente sostengono e racchiudono la statua lignea seicentesca della Vergine delle Grazie, opera di Pietro Botto di Savigliano.

Nell’ancona, in particolare, si sbizzarrisce la fantasia dell’architetto, che crea un’elegante edicola formata da sei colonne corinzie con una elaborata trabeazione curvilinea dalla quale emerge una corona marmorea a larghe volute che culmina con una stella dorata.  Due bianche statue lignee di angeli, scolpite da Ignazio Perucca, sono collocate alle estremità della trabeazione. Opera dello stesso scultore sono le testine alate fra nubi ai piedi della Vergine.

Riscoprendo un espediente di origine romana già usato nelle chiese del Vallinotto presso Carignano, di San Bernardino a Chieri e di Santa Chiara a Bra ma da tempo accantonato, Vittone crea un’illuminazione “alla bernina”, cioè che scende dall’alto provenendo da una fonte nascosta. Come nella cupola della chiesa di San Bernardino, a sottolineare il flusso della luce un fascio di raggi dorati scende dalla finestra nascosta alle spalle della statua della Vergine.

Nella scelta dei marmi, sia nuovi che di recupero (questi ultimi provenienti dalla precedente cappella seicentesca), Bernardo Vittone conferma la sua conoscenza dei materiali e la grande sensibilità per l’armonia di forma e colore. Il rossiccio macchia vecchia delle colonne dell’ancona crea un gradevole contrasto con il bardiglio di Valdieri della mensa dell’altare; il verde di Susa si alterna al persichino di Roccarossa; la pietra di Gassino all’alabastro di Busca; il bianco di Carrara al giallo di Verona; il diaspro tenero di Sicilia al seravezza di Firenze e al rosso di Francia.

La cappella del Duomo conserva oggi le forme e le linee del progetto settecentesco di Bernardo Vittone che intervenne su un sacro sacello realizzato tra il 1632 e il 1636. Le due grandi tele del Sariga sono del 1759.

3.1. Per saperne di più…

  • AA.VV. Nuova luce alla Madonna delle Grazie, Chieri, 2010.
  • BOSIO A., Memorie storico-religiose e di belle arti del Duomo e delle altre chiese di Chieri, Torino 1878.
  • BASSIGNANA E. (a cura di), Duomo di Chieri. 15 secoli di storia e di fede, Pinerolo 1986.
  • CAVALLARI MURAT A., Antologia monumentale di Chieri, Torino 1969.
  • MIGNOZZETTI A., Artisti nel Duomo di Chieri, Torino 2007.
  • MIGNOZZETTI A., Il Duomo di Chieri, note storico-religiose, Torino 2012.
  • OLIVERO E., Sopra alcune architetture di Bernardo Vittone. La cappella della B. V. delle Grazie nel duomo di Chieri. Torino, 1924.
  • VALIMBERTI B., Spunti Storico-religiosi sopra la città di Chieri, vol. I, Il Duomo, Chieri, 1928.

4. Le due statue della Madonna

Da TOFFANELLO R., Madonna delle Grazie salvaci tu, in O di Chieri gran regina! La Madonna e la città tra Medioevo e Novecento, Chieri, 2010, pp. 69-86.

Ciò che da subito si pensò di collocare in Duomo era un’immagine della Vergine, anche se in una situazione provvisoria nel lento corso degli anni in cui si costruiva la cappella. Di un’effigie si parla da subito, da quando cioè, emesso il voto, si decreta di fare una processione di penitenza, portando un’immagine di Maria nella piazza delle Erbe, accanto all’Arco, e davanti a quell’immagine il capo del clero avrebbe letto, a nome di tutti, la formula del voto. Quell’immagine non è quella attuale che venne scolpita, pagata dal Comune e consegnata in Duomo solo dodici anni più tardi, nel 1642, opera di Pietro Botto di Savigliano (con influenze collaborative di Michele Enaten di Asti) ma una statua della Madonna già presente in una chiesa di Chieri e portata in Duomo dopo il voto.

È ora [2010] in restauro una statua della Madonna con Bambino Gesù in braccio, dal 1603 collocata nella sacrestia del Duomo; il particolare del coronato monogramma mariano “MG” dipinto sulla veste, riaffiorato durante le fasi del restauro, e la nota scritta da un puntiglioso canonico del Duomo in un libro capitolare, rende sempre più fondata l’ipotesi che sia questa la prima Madonna delle Grazie.

5. Le feste per i Centenari del 1830 e del 1930

Da F. FERRUA, Il bicentenario della Madonna delle Grazie, in Momenti di storia chierese nell’Ottocento, a cura Ferrua F., Vanetti G., Chieri, 2011.

Solennissime, grandiose, magnifiche, maestose”. Le feste organizzate nel 1830 per celebrare i duecento anni dalla liberazione dalla terribile pestilenza che a Chieri aveva fatto oltre quattromila morti – quasi la metà della popolazione – furono l’evento religioso e mondano più notevole di tutto l’Ottocento. I cronisti raccontano che arrivarono in città, provenienti da Torino e dai paesi vicini, non meno di 25.000 persone per ringraziare la Regina dei Cieli, la Possente Vergine Liberatrice, la Beata Vergine delle Grazie la cui statua è venerata in duomo. Messe, canti, benedizioni e prediche si susseguirono ininterrottamente nei primi tre giorni di settembre; la città intera si riversò nelle strade e nelle piazze per un’inedita corsa dei cavalli nella via Maestra (oggi Vittorio Emanuele II) e per vedere nella più fitta tenebra della notte le chiese, i monumenti e i palazzi decorati con migliaia di lumi. Stupefacenti e scoppiettanti fuochi d’artificio illuminarono a giorno la grande piazza del Piano (poi Cavour) mentre un pubblico scelto assisteva in teatro all’esecuzione della Cenerentola.

Un articolo della Gazzetta Piemontese, autorevole bisettimanale di Torino che aveva a Chieri circa quaranta abbonati, elogiò – a festeggiamenti conclusi – la Civica Amministrazione e gli abitanti di questa inclita Città e il Signor Conte Masino di Mombello, nostro provvido Sindaco, le pubbliche podestà, le più distinte persone per l’organizzazione; il giornale nomina i  valenti professori di musica fatti arrivare da Torino e fa complimenti ammirati ai tre predicatori che si alternarono sul pulpito per la maschia eloquenza … per la bella facondia … per parlari chiarissimi. Lo stesso giornale, qualche giorno prima, aveva dato notizia degli imminenti festeggiamenti e dei preparativi: “Nei primi tre giorni del prossimo 7mbre si celebra la solennità ad onor di Maria SS.ma delle Grazie per la liberazione dal gran contagio nel 1630. La vasta chiesa della Collegiata si addobba con tappezzerie fatte venire con gli apparecchiatori da Genova. Oltre alla musica della R. cappella vi sarà la corsa dei cavalli e, dopo i fuochi artificiali, la illuminazione generale. Per questa occasione un cittadino di Chieri produce per le stampe di Giacomo Marietti un libro intitolato Memorie storiche del gran contagio in Piemonte negli anni 1630 e 31, e specialmente del medesimo in Chieri e ne’ suoi contorni … prezzo fisso lire due”. Dell’autore del libretto, il chierese Giambattista Gioacchino Montù, professore di greco all’Università, possediamo anche una brillante e curiosa cronaca di quei memorabili giorni. Il manoscritto inedito – una relazione in brutta di 11 pagine che si conserva nel Fondo Bosio di Torino – era destinato ad essere pubblicato a Dio piacendo in un libro, ma dopo l’insuccesso delle Memorie del gran contagio ciò non avvenne. Un’altra cronaca dell’evento, anch’essa allo stato di manoscritto, fu redatta da Ottavio Gayotti nel Commentario di memorie patrie (21 pagine), testo che Bartolomeo Valimberti definì descrizione assai prolissa, ma che è apprezzabile per il contenuto molto analitico ed esauriente. E’ consultabile nella sezione di storia locale della Biblioteca Civica di Chieri.

Il Comune di Chieri organizzò la celebrazione della ricorrenza nel modo più sfarzoso possibile stanziando 2.000 lire e promuovendo una raccolta fondi. Comitati di quartiere, appositamente istituiti, chiesero ai proprietari di case e di terreni un’offerta in proporzione ai loro patrimoni (niuno la ricusò, anzi molti sorpassarono la propria quota sì in Chieri che in Torino). Professionisti, ortolani, osti, macellai, panettieri, mercanti, lavoranti da telaio e muratori versarono secondo il proprio volere e le proprie forze. Non mancò, ovviamente, qualche polemica. Il Montù riferisce quella tra gli osti e i macellai ed il Comune. I primi avrebbero voluto che il Comune si servisse obbligatoriamente da loro per organizzare i tavoli con i vassoi per i rinfreschi. Il sindaco non accettò e i negozianti, offesi, ritirarono le loro offerte e le convertirono in pane per i 450 poveri della parrocchia di San Giorgio e gli 800 del Duomo. I cabaretti per le autorità e per i loro ospiti furono pagati di tasca propria dal sindaco.

Come scintilla al fuoco, come il bombace ai lumi, l’ardore e l’entusiasmo di alcuni cittadini si trasmisero a molti altri che non esitarono a sostenere spese pur di ben figurare di fronte ai moltissimi forestieri che sarebbero giunti in città. Fu così che gli esterni dei palazzi ed i cortili furono restaurati ed “abbelliti” … coprendo con l’intonaco la fisionomia medievale di alcune facciate. In certi casi si lavorò pure di notte. I restauri riguardarono anche edifici pubblici: la facciata dell’ospedale e quelle della chiesa di Santa Lucia, attigua al Duomo. Su iniziativa della Confraternita della Santa Croce – riferisce il Montù – nella chiesa di Santa Lucia furono cancellate per incuria in quel torno le due pitture di san Luigi Gonzaga e di san Carlo nelle due colonne laterali dietro l’altare maggior in prospetto della strada pubblica.

Gli interventi maggiori riguardarono l’interno del duomo che, assecondando il gusto dell’epoca, fu come rivestito di tessuti. La progettazione fu affidata ad un abile disegnatore torinese che in pochi giorni consegnò un bozzetto risultato gradito ai più. Scartato il preventivo di un tappezziere torinese perché ritenuto troppo caro – prima pretese 8.000 lire, poi 5.000 e non meno… fatto complotto tra di loro tappezzieri torinesi – ci si rivolse a Giacomo Fantini, un chierese trapiantato a Genova il quale presentò un abile apparatore che chiese la modesta somma di lire 900 … e così – prosegue sornione il Montù – furono burlati i torinesi. Tre operai lavorarono senza sosta per un mese intero. Il risultato non si fece attendere. La Gazzetta Piemontese scrive che la chiesa venne addobbata con tanta ricchezza di apparati, e con sì moderna squisitezza di gusto, che non sarebbe stato possibile di crescerne maggiormente il decoro e la maestà. Scrive il Montù: “Ogni colonna era ornata di tappezzeria in velluto cremisi, ogni arco tra colonna e colonna coperto di tele bianche, rosse, verdi con molto talco in oro, ed un lustro (lampadario) magnifico ad ogni arco pendente, … tutti di rilucenti cristalli e ornati di candele. Sopra le otto colonne piccole stavano otto grandi immagini ben dipinte su cartone a Genova rappresentanti varie virtù. Il più bel colpo d’occhio fu il pulpito, ornata tutta la scala, il contorno, la corona superbamente, sì che niun Torinese avrebbe giunto ad eguagliarlo. Tanta fu la copia di arazzi che scrissero da Genova che credeano il Duomo di Milano … Sopra l’altar maggiore il frontone fu elegantemente ornato con varietà di arazzi pendenti in semicircolo, avea un padiglione magnifico, tutto di seta rossa in varie pieghe; in mezzo vi fu un trono dipinto su tela in mezzo a cui fu collocata la statua … Bella vista, magnifica, sorprendente, maravigliosa era il Duomo dalla porta grande, tanto più illuminato tutto, essendo tutte le cappelle ornate di candele, oltre i lustri nella nave di mezzo”.

La statua in legno della Madonna fu trasferita all’altare maggiore dalla cappella votiva in cui si trovava fin dal 1642, per essere riccamente addobbata e impreziosita: la marchesa Giuliers d’Alvernante e madama Masino, moglie del sindaco, l’avevano provvista a loro spese di un magnifico prezioso manto azzurro fatto ricamare a Torino a pagliette d’oro e cucito a Chieri da madama Buschetti e da sua figlia. Una collana superba e bei pendenti erano stati donati dal sindaco (il Gayotti specifica: “uno stupendo colliere d’Oro, guernito d’Amatista e Topazzi”). Il sindaco – racconta polemicamente il Montù – avrebbe voluto regalare anche una corona di pietre preziose, ma se ne astenne per timore che avvenisse lo stesso caso avvenuto al raggio di 6mila lire regalato dal Conte Baronis ai Canonici, e per loro negligenza lasciato rubare.

A garantire la sicurezza e a mantenere l’ordine pubblico furono poste 30 guardie del Reggimento di Piemonte e 6 carabinieri a cavallo, in aggiunta alle 20 guardie e ai carabinieri di stanza a Chieri, e a 16 veterani. Il Capitolo del Duomo vietò la vendita di ogni cosa presso la chiesa: confetti, candele e sin anche le immagini… mentre il Comune proibì i balli ed ogni specie di giocolieri pubblici, ma, purtroppo – afferma il Montù –  venuti molti, ma fatti uscire, e così tanti poveracci, ciechi, storpi forestieri: dato ordine poi alle porte della città di tenerle aperte per le tre sere festive sino a mezzanotte. Gli fa eco la Gazzetta Piemontese: “Non si saprebbero abbastanza encomiare le previdenze, la saviezza e le sollecitudini d’ogni maniera con cui il prefato signor Conte (il sindaco) dispose, distribuì ed avviò i varii festeggiamenti, ed assicurò l’ordine pubblico, che in tutto il loro corso non venne in tanta folla menomamente turbato”. Il Gayotti scrive: “Certamente non potranno persuadersi li Posteri che il ragguaglio di quanto ho riferito … possa aver avuto luogo con tanta serenità e tranquillità d’animo…” attribuendone il merito all’amministrazione civica ma anche, e soprattutto, alla grazia di Dio ed assistenza della Santissima Vergine sicché tutto si concluse con la massima soddisfazione in mezzo all’allegrezza, fasto, buon ordine che risuonò per tutto il Piemonte.

Per la grande chiesa dell’insigne Collegiata di Santa Maria della Scala furono tre giorni davvero intensi, preceduti, la sera del 31 agosto, dalla cerimonia ufficiale: “Si radunò in chiesa il corpo di città coi soli consiglieri, mancanti due o tre, tra cui Gayotti per difetto di vestito e spada… disposto un banco peculiare con tappeto rosso al Comandante, ed un lungo banco in seguito coperto di superbo arazzo rosso con stelle d’oro, credo, affittato a Torino. Si cantarono le litanie in musica, con la Stella Coeli, e datasi la benedizione del SS.mo dall’arciprete col Capitolo, tutti accesi i lumi dell’altare, ai lustri, alle cappelle con maraviglia di tutti. Non vi fu né confusione né disordine, né bisbiglio forte, né altro inconveniente irreligioso ed indecente, in tutte le feste, come accadde nel 1780 con scandalo. Anche gli Ebrei in gran numero, uomini e donne, cittadini e forestieri concorsero curiosi e più volte in chiesa… tutti modesti e senza irriverenze, che purtroppo arrivano nei Cristiani medesimi. In generale vi fu rispetto e divozione”.

Una folla straripante di fedeli chieresi e forestieri passò davanti alla statua della Madonna, fece la comunione, assistette alle messe, ascoltò le prediche. Il Montù ricorda: “Furono celebrate al duomo nel primo giorno num. 48 messe, 79 il secondo, 58 il terzo, e num. 32 a San Filippo in un giorno solo, senza contare le altre chiese. Che affluenza di sacerdoti forestieri! Le sei Confraternite, due per giorno per anzianità, prima delle ore nove e mezzo andarono in visita, celebrata la messa dal loro cappellano, e con angioletti recanti il proprio dono… cuori d’argento con l’emblema della propira compagnia, ampolline…. Le Rosine andarono dopo pranzo del terzo giorno, con una Rosinella vestita bene in angioletta col proprio dono di una torcia e bel cuor d’argento… Le sole Orfane, benché possidenti, mancarono ma per incuria o per malignità contro il Capitolo, propria del loro Tesoriere, il Curato di San Giorgio”. La messa grande era cantata e vivacizzata dalle note di valenti musicisti. Ogni giorno un predicatore diverso fece il suo panegirico: il Montù apprezzò solo quello dell’arciprete Tosco, ma – si capisce! – aveva una settimana prima percorso [letto] il suo libro sulla peste… con tutto ciò potea esser migliore, essendo già in età d’anni 76 a 77.  Nessun vescovo, tra i cinque invitati, poté partecipare alle funzioni. Le motivazioni addotte … non sembrano convincenti: esercizi spirituali ad Acqui, una prossima ordinazione ad Alessandria, una festa di preti, un impegno a fare i conti per il seminario, l’invito ad un ingresso vescovile.

Le occasioni di divertimento serale offerte ai cittadini (fuochi d’artificio, illuminazione cittadina, corsa dei cavalli) sono raccontate dal Gayotti e dal Montù con viva partecipazione. “Ebbe luogo dunque la prima sera la macchina dei fuochi artificiali sulla gran piazza del Piano, disposta tra la chiesa di San Bernardino e il muro di Sant’Antonio, in modo che fu visibile sin dalle Orfane…”.  Davanti all’albergo del Muletto (oggi Caffè Nazionale) era stato costruito un palco per i consiglieri comunali ed un altro riservato al Sindaco, ai suoi amici e ai notabili del paese; un altro era stato piazzato contro il giardino di San Francesco (in via Palazzo di Città), un altro ancora presso i gelsi che occupavano lo slargo antistante il palazzo del barone di San Severino (Palazzo Bruni); persino le Orfane avevano un palco davanti al loro palazzo. “Il concorso di gente fu sommamente numeroso. Il fuochista, un pellicciaio di Asti storpio e linguacciuto, portò più e più macchine, ma non le piantò tutte scusandosi per l’inopportunità del luogo… contentò pochi”.

Prosegue il Montù: “Riuscì molto migliore la macchina stata illuminata sul fine tutta insieme con la immagine della Vergine ed una bella croce in cima che non ci fu nel Piano, eseguita dal nostro fuochista chierese Bertinetto e suo socio al Moreto, la domenica, con moltissimo concorso di gente, e sino tutti i Padri della Pace… [n.d.r. – si fa riferimento ad uno spettacolo pirotecnico che si faceva ogni anno alla prima domenica di settembre al pozzo del Moretto (via Avezzana ang. via Garibaldi), tradizione documentata a partire dal 1786]

Dopo i fuochi cominciò la illuminazione generale, stupenda: tutti a gara qua e là per tutta la città. Non illuminate le sole facciate del Duomo e di San Giorgio per incuria o per altro difetto del Sindaco. Nemmeno il campanile di S. Giorgio che lo fu con la facciata nel 1780 … quarantamila lumi di latta affittò per Chieri il tolaio. Quattromila lumi all’Arco, 3.000 a San Filippo, il ghetto, 159 lumi a casa mia (in cima alla salita delle Rosine) compresi 5 fanali… Cosa bella a vedersi il gran mondo cittadino e forestiero, senza disordine però e senza disgrazia veruna, godendone lo spettacolo gli stessi Religiosi Domenicani e Riformati residenti e Cappuccini forestieri ed altri Religiosi, che passeggiavano per le contrade in mezzo al popolo, come di mezzogiorno, sino alle nove e dieci ecc. di notte… La moltitudine fu tale che al solo albergo del Muletto si asciugò il pozzo per i cavalli e la cucina nel primo giorno; ed i numeri d’ordine per le vetture fu sino a 280 disposte qui e là coi cavalli in varie corti e stalle da lui prese in affitto, cioè dal signor Balbiano che solo fece ottimo profitto di più mila lire… meno profittò l’oste Barbasino in fondo di piazza d’Erbe (oggi Umberto I). Bel vedersi la sera, a notte anche avanzata, partire tanti per casa loro vicina nei paesi prossimi, molti dormendo sdraiati sopra gli assi e sui palchi in piazza o contro i muri delle case, o anche nelle stalle in campagna, sotto gli alberi, come più di 400-500 sotto i mori dei soldati fuori la porta del Moreto. Era un caldo eccessivo in questi tre giorni, nella città, e massime in duomo: un tuffo afa irresistibile, non avendo piovuto alcun poco che la terza sera e l’indomane, sabbato, un gran temporale benefico alle persone ed alle campagne…

Particolarità notevole fu che, nella seconda sera, tra le ore 9 e 12 fu l’ecclissi della luna totale, come sta notato in almanacco, onde la illuminazione comparve più splendida della precedente”.“Le spese furono grandi alla città, ed ai cittadini; con molti incomodi, ma tutti contenti per le feste così ben riuscite e con somma soddisfazione ed applauso di tutti i forestieri, benché per mio [Montù] avviso io reputerei cosa meglio eseguita secondo la forma del Centenario fattosi in Andezeno poco prima del nostro, dove il popolo andò processionalmente alla parrocchia col clero alla cappella di San Rocco, senza musica e senza strepito, ivi detta la messa, e nel ritorno alla parrocchia, previo un fervorino del prevosto, si diede la benedizione del SS.mo. Dopo cantato il Te Deum a voce di popolo: così richiedendo lo spirito vero del Cristianesimo … Invece, conclude con amarezza il Montù, il Comune era più inclinato alla gioia secolaresca e profana, col teatro e colla corsa secondo l’uso depravato del mondo presente, che alla vera pietà religiosa”.

Da TOFFANELLO R., Madonna delle Grazie salvaci tu, in O di Chieri gran regina! La Madonna e la città tra Medioevo e Novecento, Chieri, 2010.

Nell’aprile 1930 si scelse il disegno di un nuovo ostensorio e si moltiplicarono le recite, le accademie, i teatrini, si progettò un grandioso banco di beneficenza per far fronte alle spese per i festeggiamenti; si istituì anche un apposito comitato. La statua venne collocata sull’altare maggiore tra candele e drappi e su una nuvola. Venne portata in processione il 1° settembre, collocata su un carro trionfale con il baldacchino antico (nel 1985 malamente adattato ad altare nella cappella). Venne a Chieri anche il principe Umberto II e si recò in Duomo dove depose ai piedi della Madonna delle Grazie una rosa bianca.

6. Bibliografia Ragionata

  • TERRANOVA C., La peste del 1630 a Chieri, in O di Chieri Gran Regina. La Madonna e la città tra Medioevo e Novecento, Chieri, 2016, pp. 49-64. È lo studio più approfondito sull’origine dell’epidemia, la diffusione del contagio nel Chierese, l’assistenza agli infermi, i rimedi.
  • TOFFANELLO R., Madonna delle Grazie salvaci tu, in O di Chieri gran regina! La Madonna e la città tra Medioevo e Novecento, Chieri, 2010, pp. 69-86
  • MONTÙ G. B., Memorie storiche del gran contagio in Piemonte negli anni 1630-31 e specialmente del medesimo in Chieri e ne’ suoi contorni, Torino, 1830. Il libro è consultabile anche sul sito web. Fu realizzato nella ricorrenza del bicentenario della peste.
  • MIGNOZZETTI A., Cappella della Madonna delle Grazie (già di San Giuliano), in Il Duomo di Chieri. Note storico-religiose, Chieri, 2012, pp. 200-225. Studio esteso e ottimamente documentato sulla più nota cappella del Duomo.
  • MIGNOZZETTI A., Il primo Seicento, in ID. Artisti nel Duomo di Chieri, Chieri, 2007, pp. 43-44. Notizie storiche introduttive alla presentazione degli artisti che lavorarono in Duomo.
  • Memorie del secondo Centenario in Chieri 1830, s. d. (ma 30 ottobre 1830), ms. di Gioacchino Montù, in FONDO BOSIO, Biblioteca Civica Centrale, Torino, Sez.  Manoscritti e Rari, mazzo 19, n. 353 sgg
  • VALIMBERTI B., Spunti Storico-Religiosi sopra la Città di Chieri, Il Duomo, Chieri 1929, pp. 153-156
  • FERRUA F., Il bicentenario della Madonna delle Grazie, in Momenti di storia chierese nell’Ottocento, a cura Ferrua F., Vanetti G., Chieri, 2011
  • Gazzetta Piemontese, 9 settembre 1830, p. 622, 31 agosto 1830, e articolo 4 settembre 1830, in Biblioteca Civica Centrale, Torino.

 

Il Seicento a Chieri
Dal Rinascimento al Barocco